martedì 27 novembre 2007

La collina, il lago, la pioggia e il Franciacorta

Angelo Peretti
Sarà che sono un cattivo autista, nel senso che certamente non amo l’automobile alla follia, ma quando c’è troppo traffico vado regolarmente in tensione. Mi capita di sicuro quando devo attraversare Brescia sulla Milano-Venezia: tutto quel caos di macchine e tir mi dà disagio. E forse di più me ne procura l’anarchia viabilistica che c’è subito fuori dell’autostrada, sulle tangenziali e superstrade bresciane che portano in città o nei sobborghi, tra file e file di capannoni, col via vai impazzito di gente che sembra non saper fare altro che spingere sull’acceleratore anche là dove correre non si dovrebbe (potrebbe).
Ecco dunque che mi ci sono diretto con un po’ d’ansia in Franciacorta, in una tarda mattinata novembrina che pioveva a dirotto, avendo dovuto dapprima passare il trittico infernale Brescia est-centro-ovest e poi zigzagare fra il serpentone di metallo di auto e camion di fuori dal casello di Rovato.
Gli è però che ero atteso alla mia prima vera full immersion nella bollicinosa realtà franciacortina (altre visite precedenti erano state toccate e fughe), e dunque il viaggio valeva la pena. Stavolta m’avevano organizzato una visita quelli della Sata, agenzia d’agronomi d’assalto (rintrazio in particolare Marco Tonni per avermi proposto la giornata in Franciacorta), col credo dell’equilibrio della terra e della vigna. E dunque attenti a non nutrire falsamente i suoli, che vuol dire per esempio niente chimica, e sano letame, invece, tra i filari. E poi m’aspettava Marco Zizioli, enologo giovane dalla personalità spiccata, pure lui consulente in Franciacorta, in stretta sintonia col gruppo Sata.
Vi dirò subito che, nonostante il traffico d’avvicinamento - poi lassù a due passi dal lago d’Iseo le cose son cambiate in meglio, e parecchio - e la grand’inzuppata che mi son beccato, il pezzo di Franciacorta che ho incontrato m’è piaciuto, e un bel po’. Ed anzi le vigne spoglie e la pioggia che seguitava a scrosciare formavano, insieme, un che di suggestivo. O forse è che a me, lacustre, quei cieli grigi, quell’arie malinconiche son familiari, e usuale m’è pure la collina morenica vitata, e dunque mi rispecchio in questa terra a due passi da un lago, pur piccolino. E fascinosi ho trovato alcuni scorci, come verso le torbiere, al vigneto delle Boschette (mi par si chiami così, o sbaglio?) della famiglia Bosio. E affascinantissima (si può dire?) ho trovato la collina che, a Provaglio, è stata impiantata di vigna da Chiara Ziliani. Ed è poi tutta bellissima e stretta e fitta la vigna. Sull’esempio della Champagne. E il lavoro di consulenza agronomica lo vedi, lo tocchi con mano.
Eppoi in Franciacorta si fa tutto con imprenditorialità somma, e dunque se si dice che il buon vino lo si fa soprattutto nel vigneto, be’, qui si prende l’agronomo che prepari la vigna, ché faccia scaturire dunque il frutto buono su cui poi - solo poi - dovrà impegnarsi l’enologo. E così va a finire che anche i piccoletti, che la consulenza agronomica magari non se la possono ancora permettere, imitano gli altri, e dunque è ben condotto tutto il vigneto - o quasi - franciacortino.
E questo non vuol dire standardizzazione. Ché il terroir incide, eccome, se non punti all’omologazione. E dunque ecco che le bolle di Franciacorta sembrano percorrere due diverse strade: quelle che puntano al verde e al floreale, e quelle che invece mettono in luce il fruttino e la polpa.
L’altra diversificazione è invece stilistica: c’è chi (i più) guarda alla morbidezza, e dunque mette zucchero abbastanza alto nel liqueur, ed è scelta che paga commercialmente, oggi, e chi invece ancora testardamente (evviva! Ma son pochetti) s’ostina a privilegiare la vena acida e nervosa.
Poi c’è la terza diversità, quella che ripartisce le bolle fra il brut (e qui ci metto dentro pur l’extra brut e il raramente fatto pas dosè) e il satèn, ennesima genialata di Franciacorta, nato quindici anni fa per aver più setosità dalla minor pressione, e oggi in crescita d’affermazione. Ché poi in Franciacorta il successo è quotidianità: problemi a vendere ce n’è zero, per chi sa fare il passo giusto. E il passo giusto qui sembrano tenerlo quasi tutti.
Adesso, per finire, qualche vino delle quattro aziende visitate, tutte seguite a Ziioli e dagli agronomi di Sata.

Franciacorta Satèn Ziliani C - Chiara Ziliani Non è millesimato, ma la vendemmia di riferimento è una sola, quella del 2004, e la sboccatura è di giugno scorso. Ha naso vanigliato e quasi, direi, burroso, ed ha briochina all’albicocca, ed eleganza e fiore. E floreale è pure il palato, ed è anche verde, vegetale, e mi piace questo slancio rinfrescante. C’è lunghezza, e distensione. S’apre gradualmente poi sul piccolo frutto asprigno. Ed ha bella lunghezza. Figlio di vigne giovanissime, che avevano tre anni soltanto all’atto della raccolta dell’uve, dice che la collina è giusta.
Due lieti faccini :-) :-)

Franciacorta Extra Brut Boschedòr 2003 - Bosio Oh, santo cielo, un millesimato del 2003! Annata della calura, che penseresti poco adatta alla bolla, e millesimata poi, e addirittura extra brut, figuriamoci! E invece il vino è interessante parecchio. Trentatrè mesi sui lieviti, è stato. E propone al naso nocciola e noce e vena minerale e, sotto, la crosta di pane appena uscito dal forno. In bocca, ecco che la bolla è cremosa, ben modulata. Ed è espressa in bella misura la freschezza. E c’è frutto, e tanto agrume (l’arancia, la sua buccia). E una vena balsamica piacevole parecchio.
Due lieti faccini :-) :-)

Franciacorta Satèn - Riva di Franciacorta La prima vendemmia dell’azienda, neonata, è stata quella del 2005, ed è dunque questo (insieme al brut) il primo vino prodotto, ed è stato sui lieviti brevemente pertanto, 19 mesi o giù di lì. Ed è stato sboccato appena un paio di mesi fa. Eppure le premesse son buone. Il naso ha piacevoli note citrine e la bocca è sullo stesso piano epperò anche innervata d’eleganti memorie di fiore bianco. La struttura non è di quelle imponenti, però c’è eleganza.
Due lieti faccini :-) :-)

Franciacorta Satèn - Valle Far bolicina in un agriturismo. Buona la bolla, bello l’agritur (e tutt’intorno il vigneto, in una conca), di sostanza la cucina. Cucina e Franciacorta vanno a braccetto, e col burro e l’agliatura dei piatti ci sta anche quel pelo di morbidezza in più che ha il vino. E va giù un calice dietro l’altro, nonostante gli zuccheri spintarelli, questo satèn. Il naso ha tanta nocciola, un po’ tostata perfino. E ricompare l’aroma al palato. E c’è crosta di pane. E bel fruttino di bosco. E c’è lunghezza interessante. E c’è cremosità e polpa. Non è millesimato, ma è tutto comunque della vendemmia 2002, con sboccatura a fine gennaio del 2006.
Due lieti faccini :-) :-)

lunedì 19 novembre 2007

Quei sapori che tornano dal passato

Angelo Peretti
Lo si è letto in questi giorni: a Palermo sono stati condannati per estorsione aggravata i tre imputati che erano accusati di aver chiesto il pizzo alla storica focacceria San Francesco, in pieno centro della città. Li aveva denunciati il titolare.
Alla focacceria ci sono stato di recente. Di fronte ci stazionava una macchina dei carabinieri. Era strapieno di gente. Soprattutto giovani. Ci ho mangiato il pani ca’ meusa, il panino con la milza. Per di più maritato, e cioè arricchito col formaggio - credo sia caciocavallo: dicono così su Osterie d’Italia - tagliato a listarelle, che si fonde col calore delle frattaglie. Com’era? Straordinariamente gustoso. Un sapore antico. Unico. Se torno da quelle parti, è certo che me ne sbafo un altro.
A Firenze non ho resistito al fascino della bancarella di Orazio Nencioni, accanto alla Loggia del Porcellino stracolma di chioschetti di vestiario e pellame. Avevo appena pranzato. Ma quando mi sono imbattuto nel furgoncino che serviva i panini con il lampredotto, be’, come facevo a passar oltre? E cosa sia il lampredotto è presto detto: trippa. «Un caso di resistenza gastronomica» dice Osterie, a proposito dei trippai fiorentini. La lessano e la tengono in caldo, per affettarla davanti a te. Poi splàf, nel panino riscaldato sulla piastra. Pesantuccia, ma irrinunciabile.
Li chiamano, adesso, street food, questi panini schiettamente popolari. Cibo di strada. Appartengono alla tradizione. Da salvare. Da assaporare. Alla faccia delle continue restrizioni igienico-sanitarie. A volte francamente incomprensibili.
Direte: ma come, tu, veronese, ami il panino quando il sindaco di Verona, appunto, ne vieta il consumo nelle piazze? Intanto, Tosi ha proibito d’accamparsi sui monumenti, e comunque decideranno gli elettori scaligeri se è cosa buona o no. Però mi verrebbe da dire che ha fatto bene, considerati i panini che si vendono in centro: con tutte le materie prime di pregio che si fanno in provincia, che senso ha che i turisti s’ingozzino di plasticume?
E comunque, non è di panini che voglio riflettere in queste righe. Piuttosto di tradizione. Di cibo della tradizione. E dico evviva, perfino, alle sagre, se vi si fa da mangiare coi sacri crismi. Senza asservirsi al precotto, al preconfezionato, alle buste industriali. A Pizzighettone, nel Cremonese, sono capitato casualmente, qualche giorno fa, alla festa del fasulìn de l’öc cun le cùdeghe, e il titolo un po’ m’inquietava. Ma che saporita quella zuppa (servita in scodelle di coccio) di fagiolini dell’occhio, ormai quasi introvabili, e cotiche di maiale (tante) cotte lunghissimamente. Si può far qualità perfino nelle piazze, se si rispetta per davvero la tradizione. Se la si ha a cuore. Mica asservendola, snaturandola, plagiandola per farci soldi facili e magari esentasse.
Ecco: la tradizione gastronomica. È questa che va d’attualità. E non solo per faccende di strada o di piazza. Non solo, ovvio, quando ci son di mezzo le frattaglie (che mangio volentieri, lo si è capito). Vedo, più in generale. un ritorno - finalmente - alla cucina tradizionale. Italica. È questa la ristorazione che funziona, oggi. Il resto vive da tempo aria di crisi. Purché non sia solo moda, passeggera.
In realtà, credo che il mondo della ristorazione (quella qualitativamente valida, intendo, ché c’è troppa gente che ammanisce schifezze) lo si possa dividere in due. Le trattorie (le osterie) e i ristoranti tout court.
Le prime, le trattorie, per me sono quelle che debbon fare, appunto, tradizione. Con prodotti di territorio, con tipicità del luogo, con sapienza antica. Ma attenzione: il prodotto dev’esser buono, ché altrimenti si è alla farsa, e nel nome del tradizionale si portano in tavola nefandezze. Prima il valore della materia prima, in ogni caso. E, insieme, il rispetto della storia alimentare. Magari alleggerendola, certo: mica c’è bisogno, adesso, di dar troppa sostanza, di far sentire lo stomaco pieno. E dunque meno condimento, meno unto, e magari, se possibile, cotture più moderate e brevi, che non portino a sfibrare la pietanza. Ma è questa, ripeto, la mission della trattoria: preservare la tradizione. E può esser anche cucina borghese ottocentesca: vitello tonnato, ad esempio. Ma niente tagliata con la rucola, please.
Alla ristorazione spetta un altro ruolo. Che è quello d’applicare ingegno alle materie prime di qualità, che siano del luogo (lo preferisco) oppure no. E ci dev’essere servizio adeguatissimo. Ché questa non è più solo esperienza di gola, ma dev’essere invece festa dei sensi a tutto tondo. È il posto dove non si va a mangiare, ma a far serata. E dunque giusto piatto, giusto bicchiere, giusta tovaglia, giusta location, giusta ambientazione, giusti tempi, giuste temperature. Insomma: attenzione anche al dettaglio, alla sfumatura. E questo costa fatica e impegno, certo. E si traduce magari in prezzi non bassi. Ma giustificati, o almeno giustificabili. E poco importa se in cucina la spinta creativa la si applichi alla reinterpretazione delle tradizioni o alla creatività a tutto tondo. Qui paghi la genialità complessiva. Qui vince la testa, il pensiero.
In comune, la mia trattoria del cuore e il mio ristorante della testa, hanno un elemento: la ricerca del prodotto. Hanno il cuoco, o il patron, che la mattina presto va al mercato a cercar di che far cucina. Che non s’accontenta di far l’ordine al telefono e aspettare il furgone. Ed hanno anzi in comune anche un altro, parimenti importante, fattore: il senso dell’ospitalità, dell’accoglienza, del rispetto del cliente, ché altrimenti chi te lo fa fare di tribolar tanto al mercato, in sala, fra le pignatte?
In mezzo c’è di tutto. I posti dove ti nutri in qualche maniera. Con materie prime tutte uguali, prese da quei soliti tre o quattro fornitori che ti portano in casa di tutto e di più. E qui ti sbattono sul tavola la roba da mangiare e ti considerano appena un numero: «Caffè al 16!» senti gridare, e tu non sei più una persona, ma sei ridotto, appunto, a numero, quello che c’è scritto sul tavolo, su quei meschini, untuosi segnaposto. E poi magari, al momento del conto, paghi ugualmente i tuoi trenta, quaranta euro, che non son piccolo prezzo.

domenica 11 novembre 2007

Ah, la gioia che può dare un Moscato col prosciutto crudo!

Angelo Peretti
Confesso di non sapere quasi nulla del Moscato d’Asti. Del Moscato piemontese in genere, ché c’è anche la doc, appunto, del Piemonte Moscato. Non sono mai stato in zona, a veder vigne e cantine, a camminare i luoghi. Solo qualche passaggio di sfuggita. In macchina. Niente.
Confesso un’altra cosa: che mi piace, e molto. E che lo reputo un vino di riferimento. Che gli altri italici produttori bianchisti dovrebbe assaggiare, provare, testare, valutare, studiare con attenzione. Mica per far vini uguali, no. Ma per capire i limiti. Per comprendere, intendo, dove sia il confine, che pare labile (e forse labile in effetti è), tra eleganza e grossolanità, tra armonia e stridore. Ché oggi è qui che si gioca la partita. E il Moscato non ammette errori: dolce, aromatico, effervescente, di poco corpo, o impronti il vino sulla finezza, o non c’è nulla da fare, e avrai stucchevolezza.
Ecco: è qui il limite, è qui la sfida vera. Nei tempi (al tramonto, spero, di quei tempi) della concentrazione, del muscolo, della potenza, della struttura portata agli eccessi, del legno prevaricante, del tannino angosciante, c’è nell’Astigiano chi insegna che invece si può agire sulla levità, sulla leggerezza, sulla nuance. Che diventa fascinazione. Che intriga. Che avvince, perfino.
Eppoi, piantiamola, vivaddìo, di considerarlo vin da dessert, il Moscato. Ci sta, certo, con le torte di mele e di pere, con le creme. Ma è vino. E a me piace pensarlo coi formaggi cremosi, magari, o coi salumi, in primis col prosciutto crudo, quello più dolce, giovane. Provatelo, Moscato e prosciutto: abbinamento da favole, accostamento che pare, sì, azzardato & trasgressivo, e invece è sognante connubio, con la dolcezza tattile del grasso di maiale che s’associa per similitudine con la morbidezza fruttata del vino, con la salagione che si fone con la lieve speziatura liquida, col pizzicore della vivacità minuta che pulisce il palato e prepara al nuovo boccone e al nuovo sorso, e la bocca è un’ondata di saliva. L’acquolina in bocca, s’usa dire.
Che dite: vaneggio? Credo la pensassero così anche alcuni di coloro che son venuti alla deustazione di Moscato d’Asti che ho organizzato qualche tempo fa alla Taverna Kus, a San Zeno di Montagna, il covo dei miei wine tastings. Invece tutti sorpresi. Perfetto col prosciutto, sì, del Veneto. Ma anche col prosciutto d’anatra - artigianale - che ha portato Mario Bruno Guerra (I Rasoli è il suo agriturismo, sul Baldo), e con la sua pancetta steccata e fumé. Ammaliante con la crescenza. Perfino col Gorgonzola dolce. E s’è visto, dunque, ch’è vino vino per davvero. Vino da bere, intendo, anche a tavola. Ohibò.
E adesso ecco qui che di seguito illustro qualcheduno dei Moscati che abbiamo tastato: riporto i migliori, e sono otto sui sedici messi nel bicchiere. Con un’avvertenza, e cioè che, ahinoi, parecchie ossidazioni abbiam trovato. Per colpa, ritengo, di cattive conservazioni nei magazzini dei distributori e dei rivenditori (ché da loro li abbiamo presi i più tanti). E per questo son finite fuori gioco, per esempio, le bocce della Caudrina di Romano Dogliotti, che in passato ricordo da sogno, e invece stavolta... Peccato. E il Moscato ha in fondo anche questo d’anomalo: richiede cura nel conservarlo, nel tenerlo. Ché non ti perdona niente, e uno sbalzo di temperatura gli può esser fatale. Ma possibile che chi lo vende non sappia queste cose? Possibile non gli si voglia bene, a un gioiellino del genere, e lo si tratti male assai, lo si deturpi?
Oh, mi viene alla mente un’altra avvertenza: vedrete ben tre etichette di Paolo Saracco. Non stupitevi: è un genio, in fatto di Moscato. Almeno, io la penso così.
Ecco i vini, col doppio punteggio: centesimi e faccini.

Piemonte Moscato d'Autunno 2006 Paolo Saracco Il commento generale dei partecipanti alla degustazione? Che sembra un bianco della Loira, floreale e fruttato di frutto bianco ed erbaceo di salvia e d’ortica, d’erba limoncella perfino. Come un bellissimo Sauvignon francese, ma con l’effervescenza in aggiunta, su un corpo minuto ma fascinoso. Un cameo. Seducente, intrigante, sensuale. Gioioso. Lo bevi, lo ribevi, non te ne stanchi mai. Elegantissimo. Lo reputo uno dei più grandi bianchi d’Italia, e non vi sembri un azzardo.
91/100 - tre lieti faccini :-) :-) :-)

Moscato d'Asti 2007 Paolo Saracco La nuova annata. Qualcheduno l’ha preferito al 2006 (che leggete qui sotto) per la vena verde rinfrescante, dissetante. Giovanissimo, ancora non del tutto espresso. Eppure è lì che avanza, col suo classico stile, la sua tensione. Grintosissimo.
85/100 - due lieti faccini :-) :-)

Moscato d'Asti 2006 Paolo Saracco Oplà, altra bella bottiglia! Bellissimo naso, fruttato, floreale, speziato. Leggero tono di noce. E bella bocca, soda. Frutto ben espresso. Distensione, armonia. Piacevolissimo, per nulla stucchevole.
84/100 - due lieti faccini :-) :-)

Moscato d'Asti 2006 Cascina Fonda Naso dapprima un po' ritroso a concedersi. Poi s’apre con gradualità su toni floreali e di pesca bianca e di pera Kaiser. Varietale. Bocca delicata, direi di bell’eleganza. Dolcezza non invasiva. E c’è anche una bella lunghezza. Piacevole parecchio.
84/100 - due lieti faccini :-) :-)

Moscato d'Asti Biancospino 2006 La Spinetta Fragranze finissime, floreali. Fiori bianchi. Pera kaiser un po' acerba. Bocca piacevole, ancora su toni di fiore bianco, con leggero fondo di nocciola e di mandorla. Parecchio dolce, però.
83/100 - due lieti faccini :-) :-)

Moscato d'Asti 2006 G.D. Vajra Che strano vino! All’olfatto è quasi minerale. Molto personale. Fatica a concedersi. Non ha quelle note varietali che t’aspetti. C'è qualche cenno di lavanda secca, vene resinose, coccola di cipresso. Leggera speziatura, memorie balsamiche. In bocca è tesissimo, nervoso, scattante. Piuttosto lungo. Ripeto: strano, stranissimo vino.
80/100 - un lieto faccino e quasi due :-) :-)

Asti 2006 Cascina Fonda Abbiamo stappato anche qualche Asti. Spumante, intendo. Questo è quello che c’è piaciuto di più, nella serata. Bel naso, floreale, fine, pulito. Bocca sullo stesso piano. Freschezza, slancio. Leggera nota di nocciola.
80/100 - un lieto faccino :-)

Moscato d'Asti 2006 Cà Bianca Tecnicamente è fatto gran bene. Un pelo di personalità in più, un po’ di slancio, e affascinerebbe. Ha vena pulita di fiore e una leggera nota aromatica varietale. Pesca bianca quasi acerba. Bocca non particolarmente zuccherosa. Spezia sottile, di noce moscata.
78/100 - un lieto faccino :-)

martedì 6 novembre 2007

Quelle duecentomila bollicine di montagna

Angelo Peretti
Oh, sì sì: non fanno mica solo bianchi aromatici e rossi nerboruti e schiave scattanti, dalle parti del Südtirol. Fanno anche le bollicine. D’alta quota: le vigne sopra i seicento metri d’altitudine, sennò niente spumantizzazione. Poche bottiglie: duecentomila l’anno, appena, quando va bene. E vi dirò di più: son buone. Certo, mica tutte della stessa bontà, ed è naturale che ci sia scala di valori, sennò sarebbe preoccupante standardizzazione. Ma ce n’è qualcuna che merita alla grande, e comunque nessuna è indegna del primo e del secondo calice magari. E quasi tutte han prezzi abbordabili.
Fors’è proprio per questa faccenda dell’altura che mi son piaciute: intendo che così, in quota, l’uva può maturare a lungo, rispetto all’altre zone spumantiste, senza però perdere di freschezza. E insomma si raccoglie mica verde. Quanto alle varietà, son le solite: chardonnay, pinot nero, pinot bianco.
Ho avuto modo d’avvicinarle, le bolle di montagna, fuori sede (loro), a Verona, dove l’associazione dei sei spumantisti (sei in tutto) altoatesini si sono presentati, «perché – ha detto Josef Reiterer, leggi Arunda Vivaldi, che fa metodo classico a 1200 metri d’altitudine, opperbacco, e ha look da professore pazzerello di Ritorno al futuro – vogliamo far promozione dei nostri vini, ma anche fare gli ambasciatori della nostra zona». E dei sei che fan bollicine, erano presenti in cinque, ché il sesto, Von Braunbach, non ne ha neanche abbastanza per sé, figurarsi portarle in giro. E dunque c’erano, oltre al Reiterer - che da solo fa grosso modo il cinquanta per cento delle bottiglie champenois style complessive - anche Haderburg, Lorenz Martini, la Cantina Produttori San Paolo, che ha acquisito la Kössler, e Kettmeir.
Ora, ecco produttori e vini, quelli che ho assaggiato. E se per caso avete in mente di fare una gita in Alto Adige, be’, magari prendetevene nota.

Alto Adige Extra Brut Arunda Vivaldi Ha bel naso elegante tra il fiore e il frutto bianco. E in bocca è bello secco. Eppure anche cremoso. E denso. Ed ha insomma struttura. E lunghezza sulle note di fruttino. E vena sottile, sotto, di fieno secco. Gran bella mano, credete: vino intrigante.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Alto Adige Cuvèe Marianna Arunda Vivaldi Il vino Josef Reiterer l’ha dedicato alla moglie Marianna. Ed è un bell’omaggio. Ché quest’è bolla elegantissima e aristocratica, direi. Che s’avvia classicamente con la crosta di pane e poi vira sul piccolo frutto, su finissime venature tropicali. E in bocca fonde tensione e snellezza, profondità e caratterino nervoso. E c’è frutto, tanto, nel lungo finale. Ed è da bere e ribere. Chardonnay in legno, pinot nero in acciaio.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Alto Adige Brut Haderburg Nata nel ‘77 ai Pochi di Salorno, l'azienda diretta da Alois Ochsenreiter s’è votata da qualche anno all’assoluto credo della biodinamica. E fa bolle d’un cert’impegno. Come questo brut che è potentissimo e fruttato assai e denso e ha finale perfino balsamico-officinale. Ha bella persistenza. E insomma lo riberrei, anche questo qui, proprio volentieri. Chardonnay per l’85%, il resto pinot nero.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Alto Adige Pas Dosé 2002 Haderburg Ecco, quando dicevo che Haderburg ha vini d’impegno, mi riferivo soprattutto a questo qui, il millesimato. Che certo non è mica di facile approccio, ma pretende quasi impegno, e devi aspettare un po’ che s’apra, e allora ecco che gusti i frutti antichi del bosco, la nespola magari, stramatura. E c’è nocciola. Ed è teso, affilato come una lama. E ha tanta personalità; da mettere su piatti impegnativi.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Alto Adige Comitissa Brut Riserva 2002 Lorenz Martini Altro bel vino. Altra prima scelta, se così posso dire. Metà chardonnay, metà pinot nero, quaranta mesi sui lieviti. Secco. D’una florealità estiva, di montagna, appunto. Bocca perfino balsamica, resinosa. Carbonica minuta. Cremosità. E alla lunga il frutto bianco si fa considerevole. Buonissimo.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Alto Adige Praeclarus Noblesse Riserva 2000 Kössler Se non ho mal capito, la Cantina Produttori San Paolo ha acquisito due anni fa l’azienda vitivinicola Kössler (1878 la nascita), lasciando però integri il marchio e l’esperienza spumantistica, che verrà magari riorientata. Si sappia che ora ha bolle easy to drink, che giocano sulla morbidezza, e quest’è infatti morbido parecchio e floreale.
Un lieto faccino e quasi due :-)

Alto Adige Brut Kettmeir Sulle colline di Caldaro. Da lì vengono il pinot bianco (metà della cuvée) e chardonnay e pinot nero, tutti in acciaio. Ha frutto giallo in bell’evidenza. E quasi rusticheggia. E in bocca - ha consistenza - ecco emergere qualche vena verde, che t’invita magari a stappare altre bottiglie dopo ulteriore affinamento. Epperò è un buon aperitivo.
Un lieto faccino e quasi due :-)