domenica 26 agosto 2007

Il clos in riva al lago

Angelo Peretti
Fossimo in Francia, lo chiamerebbero clos. Un piccolo appezzamento di terra - un vigneto - tutto chiuso da una cinta di mura antiche. Invece siamo in riva al Garda. A Portese, comune di San Felice del Benaco. Riva lombarda, bresciana, d’occidente. Proprio a ridosso delle ultime case del paesino.
Ad evocare il fondo cintato c’è il nome dell’azienda: Le Chiusure. Ed a gestire l’aziendina - quattro ettari di vigna in tutto - è Alessandro Luzzago. Insieme a Paola, la moglie. Lui ha preso a far vino nel ’90. Prima lavorava nell’editoria, presso la Grafo, la mitica (almeno per me) micro casa editrice di quel visionario illuminato ch’era Roberto Montagnoli, l’unico che avrebbe (forse) davvero potuto creare una comune cultura dell’intero lago, e che invece la morte ci ha strappato troppo presto. Ma queste son mie malinconie.
Che con la terra il sciur Luzzago avesse in ogni caso feeling lo si legge nel fatto che s’è preso una laurea in agraria. E con la casa e il terreno di Portese ci aveva comunque famigliarità, ché ci trascorreva le estati: era dai tempi della guerra che i suoi avevano preso l’abitudine d’abbandonar la vita cittadina in favore della riviera, almeno nelle giornate di calura.
Il posto è carinissimo. A far da sentinella al vetusto portone d’ingresso ci son due gelsi monumentali (già già, monumenti naturali). A lato, affacciata sulla strada, una chiesuola dedicata a Sant’Anna, che se non ho capito male s’apre ai fedeli una volta l’anno, come s’usa cogli oratori campestri. Passato il portone, un piccolo cortile su cui dà un classico edificio rurale lumbàrd, col doppio loggiato. Affascinante.
Ci fa, Luzzago, su quel suo appezzamento (e su un altro piccolino vicino), poche bottiglie di ben quattro vini differenti: un Chiaretto, un Groppello, e poi due uvaggi, che sono il Campei (barbera, sangiovese e marzemino) e il Malborghetto (rebo, merlot e un pelino di barbera). Bene: è di quest’ultimo che voglio parlare, del Malborghetto. Ché ne ho trovate interessantissime le due ultime annate uscite, il 2003 e il 2004. E allora sono andato a fare un giro a Portese. E Alessandro Luzzago m’ha usato la cortesia di scendere in cantina e portar su addirittura le ultime sette annate, e poi m’ha preso anche una prova di vasca del 2005 (è già in acciaio, assemblato, dopo il passaggio in legno: il vino fa un anno di barriue, ma quel che mi piace è che il rovere non l’avverti, e nemanco la tostatura) e un assaggio dalla botte del 2006. E non è certamente cosa frequente fare una verticale di nove vendemmie d’un vino rivierasco, lacustre, benacense. Ed altrettanto raro è che se ne possano comprare, d’un vino di riviera, più annate, e invece qui stanno vendendo, insieme, il 2000, il 2001, il 2003 e il 2004 (Il 2002 non si fece: anno di grandine e troppa pioggia), e li propongono a prezzi differenziati: 20 euro il primo, 16 il secondo, 17 il terzo e 14 il quarto, tenendo conto dell’età e dell’esito della vendemmia e dell’affinamento. Incredibile: pare proprio di star in Francia, dove cose del genere sono la prassi. E insomma mi toccherà parlar davvero di Clos delle Chiusure, alla franciosa.
Aggiungo che, di fatto, ho provato quasi tutta la storia del Malborghetto (a proposito: è un igt Benaco Bresciano), dal ’97 al 2006. Esclusi il ’94 e il ’96, di cui non esiste più neanche una boccia. Mentre non si son prodotti né il 2002, né il ’95, che furono metereologicamente terribili in riva al Garda bresciano.
Un accenno alle uve. Il taglio attuale del Malborghetto prevede una lieve prevalenza di merlot, e poi il rebo, e infine giusto un accenno di barbera. La barbera sul Garda d’occidente la si coltiva da tempo: è parte obbligatoria del Garda Classico Rosso (insieme col groppello, il marzemino e il sangiovese). Il merlot lo si conosce. Il rebo sta incontrando successo crescente in Valtenesi e dintorni. Ed è, questo rebo, un incrocio di merlot e marzemino ideato nel ’48 da Rebo Rigotti alla Stazione Sperimentale di San Michele all'Adige: in Trentino, patria natia, non sembrano dargli gran credito a questo meticcio, e invece i vigneron del Benaco lombardo gli concedono fiducia molta, e i risultati sembrano dar loro ragione. Vedremo cosa gli riserverà il futuro.
Ora, ecco finalmente le schede dei vini. Col doppio giudizio: centesimi e faccini.
Malborghetto 1997 Colore scarico, un po’ aranciato. Al naso palesa tracce ossidative, ma ancora resiste il frutto. Ed ha catrame. In bocca apre bene: evoluto, sì, ma ancora dotato di freschezza. Direi iodato, perfino, salmastro (e sarà una presenza anche d’altre annate). Piccolino, il frutto. Sta declinando, ma si beve ancora.
78/100 – un faccino e quasi due :-)
Malborghetto 1998 Livrea rossa brillante. Naso dapprima ostico, agliato quasi. Poi si pulisce, ma il frutto fatica ad esprimersi. Ed anche in bocca avverti presenza fruttata, ma quasi compressa, involuta. E c’è una vena acidula che pare scomposta. Peccato. L’annata meno convincente fra quelle testate.
74/100 – niente faccini
Malborghetto 1999 Solitario. Nel senso ch’è risultato, alla fine, diversissimo dall’altri. Con quella spiccata nota verde, tra l’erbaceo e la memoria di peperone. Snello, fresco, sapido. Ha bel tannino, giovanilissimo. E frutto rosso succoso. Ancora la vena iodata che s’era già trovata nel ’97. Se avesse un pelo di lunghezza in più...
84/100 – due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Malborghetto 2000 Colore bellissimo, rubino brillante. Naso fascinosamente fruttato (la ciliegia stramatura, in confettura), aristocraticamente innestato da vene d’eucalipto, di pepe. Ed ha sottili memorie catramate. La bocca è altrettanto fascinosa. Densa, polposa. Quasi masticabile, il frutto. E tannino ben definito. Gran bel vino.
87/100 – tre lieti faccini :-) :-) :-)
Malborghetto 2001 Che naso strano... Ancora quelle sensazioni iodate, ma direi più accentuate. Ancora il goudron catramoso. Ma il fruttato mi par compresso. In bocca sfoggia carattere. Carnoso, sapido. Caldo. Cenni di liquirizia. Ecco: il tannino asciuga un po’, ed è un peccato, ché la progressione del frutto ne viene stoppata.
82/100 – due faccini :-) :-)
Malborghetto 2003 La bottiglia assaggiata in azienda non andava, non mi convinceva. Un po’ cotta. Ma a casa ne avevo un’altra e l’ho aperta, e vivaddìo mi son ritrovato il bel 2003 che ricordavo: frutto, frutto, frutto. Denso, polposo, avvolgente. E c’è progressione slancio. E bella pepatura. E lunghezza di tutto rispetto.
86/100 – tre lieti faccini :-) :-) :-)
Malborghetto 2004 Alla lunga, questo 2004 finirà per battere il fascinoso 2000, ci scommetto. Mi piace. Ha frutto e nota erbacea (officinale) insieme. E bella bocca: ci trovi tensione, carattere. Ed ecco la frutta rossa succosa e densa. E bel tannino, integrato. Nulla concede alla ruffianeria: è insieme rustico ed elegante. Buono.
87/100 – tre lieti faccini :-) :-) :-)
Malborghetto 2005 Va in bottiglia in questi giorni e sarà in commercio solo nella primavera del 2005. Ho assaggiato una prova dalla vasca, non ancora il vino definitivo. Epperò già avverti che ci siamo. Magari non bellissimo come quello delle due precedenti annate, ma in linea, questo sì, in quanto a carattere ed eleganza.
Ipotizzo 83-86/100 – troppo presto per i faccini
Malborghetto 2006 Solo un assaggio dalla botte. Ma già avverti bel frutto, nitido, maturo. Ed è fruttato d’interesse sia nella prova olfattiva che in quella gustativa. E insomma, se il buon giorno lo si vede dal mattino, questo 2006 promette bene davvero. Magari è un’annata un po’ piccolina, ma c’è eleganza, sissignori.
Ipotizzo 84-87/100, ma è un azzardo - niente faccini, ovviamente, ché quest’è solo un abbozzo di vino.

lunedì 20 agosto 2007

Attenti a quei tre

Angelo Peretti
Se ve li ricordate non siete certamente degli adolescenti. Io li ricordo, ergo l’adolescenza, almeno anagraficamente, è passata da un pochetto. Mi riferisco a Roger Moore e Tony Curtis quando facevano «The Persuaders». Da noi, in Italia, era «Attenti a quei due». In televisione. C’era una sigla di quelle memorabili, composta da John Barry (e ne ha fatto una piacevole versione qualche anno fa Gatto Ciliegia Contro il Grande Freddo, nome strampalato d’una band italiana che fa musica distesa e stralunata: mica facile trovare il disco, ma se vi capitasse...).
Tutta questa premessa, l’ammetto, solo per giustificare in qualche modo il titolo che ho messo sopra al pezzo: «Attenti a quei tre». Perché voglio parlare d’un terzetto di luganisti che certo non sono fra i più noti. Ma che han tirato fuori proprio dei bei bianchi, con la vendemmia del 2006. E che vabbé, d’accordo, son tre al posto di due, ma insomma meritano attenzione, e van seguiti. A condizione (e con la speranza) che poi ci sia continuità. E quest’è una grossa questione per l’area del Lugana: so per esperienza che ad ogni annata vien fuori la buona sorpresa, ma non è così facile aver conferma vendemmia dopo vendemmia. Ché magari l’azienda è piccina, e forse non c’è dunque mezzo di far grand’investimenti in tecnologia di cantina (e in sapere, e in consulenza). Ma in terra di Lugana non si può transigere, ché quest’è bianco importante, ma difficile. E difficoltoso è interpretarlo, il trebbiano delle argille. E mantenergli tensione, e nerbo, e sapidità, e lunghezza, e frutto pulitissimo e vena minerale. Senza scadere nella sdolcinatura modaiola o, peggio ancora, nell’aberrazione che si fa difetto. E quest’è l’altro problema del Lugana: intendo che li fan morbidi, dolcini, e capisco che a farli così si vendono facile, ma ho detto altre volte, e ribadisco, che è così poco, il Lugana, che meglio sarebbe nutrir migliore ambizione, e dunque far gran bianco, fuor dalla moda e dalla tendenza dell’attimo, che fugge (badate bene: fugge!).
Dunque, segnalo le novità con beneficio di futuro inventario. Incrociando le dita per loro. E segnalo, aggiungo, con soddisfazione, ché fa piacere constatare come il territorio si muova, e metta nuovi nomi accanto alle storiche firme.
Chi sono i nomi nuovi? Eccoli qui: Cascina Maddalena, Citari, Feliciana. Mica vorrete dirmi che sono i soliti noti delle recensioni guidaiole, vero?
Di Cascina Maddalena qualcosa ho già scritto, recensendone proprio il Lugana del 2006, qualche settimana fa. Dicevo che è un’azienda piccina picciò: in tutto quattr’ettari o giù di lì. «Ma quelle poche vigne - scrivevo - metton radici in uno dei più bei crû di Lugana, credetemi». Ne sono convinto da tempo: anche in passato ho assaggiato Lugana di valore con la loro etichetta. Ma non tutte l’annate sono state allo stesso livello. Giusto per dar le coordinate per chi ci volesse andare, sappiate che sono appiccicati a Cà dei Frati. Il comune è Sirmione. Il nome della cascina sembra che venga dal fatto che Maddalena era la proprietaria del fondo quando lo comprò il nonno dell’attuale vigneron, e anche l’avo aveva per moglie una donna che si chiamava Maddalena. Ora gestiscono la piccola proprietà Luciano Zordan e la consorte Raffaella Molinari. E si dicono orgogliosi di fare agricoltura come s’usava un tempo, con la zappa. Fanno un Lugana, un rosso e un rosato.
Di Citari assaggiai un bel San Martino della Battaglia, bianco a base d’uve di tocai. M’è rimasto in mente. Poi non ho più bevuto cose loro a lungo. Mai visti di persona, mai stato in azienda. Mi pare siano quasi all’ombra della torre risorgimentale di San Martino, comune di Desenzano del Garda. In tutto hanno una decina d’ettari di vigna, con varia cultivar. Di Lugana ne fanno pochino: un migliaio di bottiglie appena, se leggo bene le note che mi hanno fornito. Da un vigneto che credo dunque sia piccolino e molto giovane, se è vero, come mi si dice, che ha una media di circa cinquemila ceppi. Solo acciaio in cantina per il bianco luganista. Stando al deplinat, oltre al Lugana e al San Martino fanno uno Chardonnay, un Garda Classico Rosso e uno spumante.
Feliciana è un agriturismo, a Pozzolengo. Mai stato neanche lì. E penso siaa la prima volta che assaggio i loro vini. Sul biglietto da visita che m’hanno fatto avere c’è scritto che in agritur fanno «piatti e sapori della cucina gardesana». So mica come sia, ma ci andrò: certo che se a tavola propongono il loro Lugana del 2006, possono metterci insieme quel che vogliono, ché solo il vino vale il viaggio. O meglio: di Lugana ne fanno addirittura due. Il primo è il base, fatto in acciaio. L’altro è una selezione, per la quale fanno vendemmia tardiva e appassimento perfino, e poi lo mettono anche in barrique per sei mesi: eppure mi dicono che è secco più dell’altro. La produzione enoica è solo luganista: ottomila bottiglie del Lugana base, tremila dell’altro.
Qui sotto le schede dei vini. Quattro Lugana per tre aziende, dunque. Con la valutazione in centesimi e in faccini.

Lugana 2006 Cascina Maddalena
Quest’è Lugana che ha personalità, e che magari ha bisogno d’un certo tempo per manifestarsi appieno. E invero l’ho trovato ancora un pochetto ostico al naso, che è insomma ritroso a mostrare il frutto, e ci vuol pazienza ad attenderlo nel bicchiere. In bocca invece già da subito gioca eccome sul frutto e sulla mineralità e sulla freschezza. Ha potenza e struttura e carattere. Secco. E rusticheggia.
86/100 - tre lieti faccini :-) :-) :-)

Lugana Le Conchiglie 2006 Citari
All’olfatto s’apre con ritrosia. Eppoi però delinea bei sentori di fiori bianchi. La bocca invece apre fin da subito, immediata, su toni floreali e di frutta bianca, polposa e matura. Ed è vino che ha freschezza salina: bella spalla acida, come usa dire chi usa certi tecnicismi. Ed ha buona lunghezza, sul frutto. Insomma: si distende sul frutto in un finale interessante. Mica male come prova complessiva.
85/100 – due lieti faccini :-) :-)

Lugana 2006 Feliciana
Ha, questo Lugana, naso verde, coi toni di clorofilla che mi piace trovare nei Lugana, ché so che poi col tempo s’intersecheranno con le vene sottili degl’idrocarburi. Ed ha accenni di pera, anche. E la bocca è poi sui medesimi toni, e anche questo mi va: fresca, salata, snella. Ci trovi frutto bianco non maturissimo. E ha lunghezza. Mi spiace un po’ solo quella nota dolcina sul fondo, il mio cruccio luganista.
78/100 – due lieti faccini :-) :-)

Lugana Sercè 2006 Feliciana
Apertosi l’olfatto dopo l’iniziale titubanza, ecco comparire le vene verdi e di già perfino minerali. In bocca c’è tensione notevole e grassezza e ricchezza di frutto e potenza. Certo, compare la vanigliatura, ché il vino ha fatto passaggio nel legno. Ma il rovere non s’avverte. E comunque ben si compensa, la nota di vaniglia, col frutto polposo. Ché la struttura è notevole, e così il carattere. E la lunghezza pure.
80/100 – due lieti faccini :-) :-)

domenica 12 agosto 2007

Fenomenologia del risotto con la tinca

Angelo Peretti
Stavolta comincio difficile. Dicesi fenomenologia «lo studio e la classificazione dei fenomeni, specialmente in quanto gradi o contenuti della coscienza filosofica»: definizione tratta dal Devoto-Oli.
Capisco che scrivere queste cose nei giorni di ferragosto può (legittimamente) far pensare a un mio improvviso colpo di sole, ma gli è che vorrei dire due cose riguardo a una questione che è quasi filosofica - se la filosofia si può applicare alla cucina, alla gastronomia - e che trae spunto da quanto Stefano Bonilli (Gambero Rosso) ha pubblicato verso fine luglio sul suo blog, il Papero Giallo. Il post titolava «Spaghetti con le vongole, ma buoni» (se volete, lo potete leggere per intiero cliccando qui), ed elogiando appunto un piatto di «semplici» spaghetti con le vongole mangiato da Uliassi (grande) a Senigallia, argomentava: «A volte le cose semplici sono le più difficili e non sempre i cuochi affermati sono contenti se ordinate un piatto di spaghetti con le vongole quando il menù è ricco di ben altre proposte. Ma un grande piatto di spaghetti con le vongole lo mangerete solo se c'è un bravo cuoco in cucina».
La cosa, me lo concedete, ha un certo che di filosofico. Ma francamente è proprio questo che, soprattutto, m’aspetto da un ristorante importante. Che faccia divinamente le cose semplici. Che abbia, che so, le vongole che sanno di vongole. Ma che abbia anche, il piatto nella sua completezza, una cottura perfetta, una consistenza appagante, una fragranza gratificante, una digeribilità assoluta. E non è mica facile. Ché far sintesi è impegnativo. E serve arte, creatività e soprattutto pensiero.
Della faccenda ho avuto occasione di parlare con Leandro Luppi, chef e patron della Trattoria Vecchia Malcesine, unico ristorante stellato dalla Michelin sulla sponda veneta del mio lago di Garda (il suo sito lo raggiungete cliccando qui). L’occasione, un passaggio a pranzo per assaggiare un piatto «nuovo» di cui avevamo discusso parecchio al telefono: un risotto con la tinca.
Ora, il risotto con la tinca è uno dei classici della cucina tradizionale del lago di Garda. A Lazise alcuni ristoranti ne hanno fatto una sorta di biglietto da visita. E quando, qualche anno fa, misi in piedi, con un piccolo team di ristoratori, il «campionato gardesano del risotto con la tinca» l’afflusso di pubblico fu tale da costringerci a cercare una sede sufficientemente ampia da soddisfare almeno in parte le richieste. Insomma: un must. Radicato nella tradizione. Che nasce, a mio modo di vedere, in una precisa epoca storica. Quando in riva al Garda veronese si coltivava, appunto, il riso. Accadde fra la seconda metà del Cinquecento e l’inizio del Seicento. A Garda c’è tuttora una località che si chiama Risare. Testi antichi raccontano delle risaie di Lazise. Nei pressi del municipio di Cavaion si vedono delle vecchie pile da riso. Nel 1686 ci fu un processo: la comunità di Garda voleva la bonifica delle risaie. Si diceva che in paese c’era una «mala qualità dell'aria, che resta infetta dal fetore che cagionano alcune risare». Causa vinta, risaie cancellate. Ne resta traccia nella ricetta: l’unione fra il riso e il guazzetto di tinca.
Quando Leandro mi telefonò dunque per dirmi che voleva mettere in carta un primo di stampo gardesano, magari reinterpretando qualcosa della tradizione, l’idea immediata fu quella del risotto con la tinca. Ma per darne una rilettura occorreva prima capirne la fenomenologia, trattando la ricetta come fosse un testo concettuale. Distillandone i contenuti. Che sono alla fin fine tre: il riso, ovvio, e poi il colore verde delle erbette e poi ancora, altrettanto ovviamente, la tinca. E riso e tinca s’uniscono solo nel finale. Con le erbe che fanno la mediazione fra i sapori. Questa è l’essenza del piatto.
Ne abbiamo discusso un bel po’, ho già detto. E poi Leandro i tre elementi li ha pensati e ripensati. Risolvendoli con genialità. Il riso al dente. Il verde ottenuto dall’aglio orsino, erba officinale che si trova anche sul Baldo, dal delicato sapore agliaceo. La tinca sopra, alla fine, spezzettata e prima leggerissimamente affumicata. Il tutto garantendo consistenza e saposrosità, ma anche leggerezza.
Come la penso? Che c’è riuscito. E quando lo provi, questo risotto del Vecchia Malcesine, pensi dapprima che sia un piatto d’assoluta semplicità. Ma siccome ad ogni forchettata l’armonia non cala, ma anzi si fa più coinvolgente, be’, allora t’accorgi che così semplice non può essere. E che è insomma un po’ come diceva Bonilli a proposito degli spaghetti con le vongole. Sembra un piatto facile, scontato. Poi te lo propone il cuoco che sa far cucina e sa pensare, e allora t’accorgi che c’è qualcosa d’importante in quell’apparente levità. Ed è un rifiorire del gusto.

domenica 5 agosto 2007

L’Amarone e il crû di Calcarole

Angelo Peretti
Ho la fortuna che m’invitano, di tanto in tanto, a delle verticali. Che sono degustazioni di più annate del medesimo vino. Ed è lì che vedi se c’è continuità, tradizione, evoluzione, e anche e soprattutto rispetto del terroir, interpretazione dell’annata.
Mica facilissimo, però, far verticali in Italia. Poche, troppo poche le cantine che hanno un loro tesoretto di bottiglie di varia età. Un archivio in vetro. Ed è questo uno dei limiti dei nostri vigneron, che non hanno storia e non pensano a costruirla. Impegnati a produrre e vendere e stop. Poi ti arriva il buyer straniero e cerchi di raccontargli quella dell’orso, e invece lui vuol vedere se il vino ha tenuta e dignità, vuol provare tre, quattro, cinque o più annate. Come si fa, del resto, coi rossi bordolesi oppure coi Riesling in Alsazia oppure… Oppure potrei citarne tant’altri, di casi, ma quasi tutti fuori dagl’italici confini.
Ora, fra le verticali recenti che la sorte e la squisita ospitalità dei vignaioli m’hanno elargito, ce n’è stata una d'importante in casa Guerrieri Rizzardi, a Bardolino. Ma mica co’ vini del Garda. Coll’Amarone. E non è cosa astrusa, ché la famiglia ha vigna sul lago, ma anche in Valdadige, e nel Soavese e, appunto, nel cuore della Valpolicella storica (e storia e bellissima è la loro villa valpolicellese). E lì d’Amaroni ne fanno, da anni, due: il Classico per così dire «base» e il crû Calcarole. Cui s’è aggiunto, nel 2001, il Villa Rizzardi, che di quell’annata è unica interpretazione, avendo deciso la famiglia di non far uscire né il base né la riserva. Ed è stata felice interpretazione, ché sono arrivati, prima volta, i tre bicchieri della guida dei Vini d’Italia targata Gambero Rosso & Slow Food.
Ora, i vini. Abbiamo riprovato il Villa Rizzardi 2001. Ci abbiamo aggiunto una decina d’annate del Classico. E poi sette vendemmie del Calcarole. Mica poco. E qualcheduna di queste bottiglie vorrei proprio avercela in casa: cert’annate son memorabili, proprio.
Qui di seguito scrivo il mio parere boccia per boccia. Col doppio punteggio: in centesimi e in faccini.

Amarone della Valpolicella Classico Villa Rizzardi
2001 Giovanissimo. Naso di frutto denso e di fiore e di spezia. Bocca succosa di fruttino di sottobosco e di amarena. Elegante più che potente. Ha ancora lunghissima vita davanti. Si può ben bere ora. O attenderlo.
90/100 e tre lieti faccini :-) :-) :-)

Amarone della Valpolicella Classico
2000 Potentissimo. Ha fragranze di frutta surmatura, macerata, in confettura. Bocca calda e avvolgente e fruttatissima anch’essa, con la marmellata di more a uscir fuori netta di mezzo alla ciliegia.
88/100 e due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
1997 Profumi decadenti, di fiori appassiti e frutta in composta. Tracce ossidative. Bocca interessante nella tramatura tannica. Ha vene verdi. E calore. Un po’ rusticheggiante, direi. Gli vorrei maggiore eleganza.
76/100 e un faccino :-)
1996 Il naso è austero, antico, fascinoso. Fiore appassito, frutta surmatura, spezia dolce. In bocca c’è frutto da appassimento e bella spezia. E terrosità, di terra rossa bagnata. E giovanilissime memorie verdi. E finezza.
93/100 e tre lieti faccini :-) :-) :-)
1995 Eccola che torna anche qui la terra rossa. All’olfatto, immediata. Vi si somma memoria di carcadè e di rosa selvatica. Vene animalesche. In bocca freschezza. E piccolo, succoso frutto di bosco. E vene balsamiche.
88/100 e due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
1994 Naso evoluto e bocca da subito illeggibile. Confusa. Poi gradualmente si netta. Ed esce il frutto rosso e la piccola bacca di bosco quasi ancora non del tutto matura e una tannicità ancora verde. Ritroso.
85/100 e un lieto faccino e quasi due :-)
1993 Wow! Che aristocratica austerità in queste fragranze fra il terroso e l’officinale. La bocca è fresca. Ha frutto croccante. Bella tramatura tannica. Lunghezza. E beva gratificante, e rinfrescanti vene di iodio. Grande.
94/100 e tre lieti faccini :-) :-) :-)
1991 Ci mette un po’ a concedersi. Ma è attesa ripagata, ché escono a ondate successive le memorie di frutto rosso. E ampiamente fruttata e calda e potente è la bocca. E ha vene balsamiche. Giovanissimo ancora.
92/100 e tre lieti faccini :-) :-) :-)
1990 Austerità olfattiva e fascino: spezia e frutto da subito. In bocca densa, polposa frutta matura. E vene di dolcezza. Leggere, ma per nulla fastidiose nuance ossidative. Vino decadente eppur piacevole. E memorie terrose.
89/100 e due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
1988 Che naso strano: dapprima ostico, riduttivo, poi lungamente salmastro, iodato, marino. Fascinoso. In bocca potenza di frutto e poi ancora iodio e catrame. E tannino ben espresso, saldo. Vino antico e intrigante.
88/100 e tre lieti faccini :-) :-) :-)
1977 Il colore è ossidativo, vira al mattone. Ma il vino è ancora degno di curioso assaggio. Odori d’idrocarburi. Vene minerali. E tracce di peperone. E ricordi di liquirizia. Certo, è vuoto, caduto. Ma il naso resta stimolante.
Niente giudizio.

Amarone della Valpolicella Classico Calcarole
2000 Eccole che si ripresenta la nota di iodio e la terrosità che avevo già trovato nell’Amarone base. Frutto rosso, surmaturo e macerato. Bocca fruttata e densa e tannicamente avvincente. Giovanissimo, già autorevole.
92-93/100 e tre lieti faccini :-) :-) :-)
1997 Al naso tanto, tanto frutto rosso, elegante, ammaliante. E ancora al palato intensa fruttuosità, e chi ama queste percezioni qui ha di che appagarsi. Lunghissimo vino. Ma meno convince il tannino, un po’ arido.
85/100 e due faccini :-) :-)
1995 Ancora tanto frutto all’olfatto, maturo & in confettura. E fiore secco e spezia. Bocca avvolgente. Di velluto. Il frutto torna, succoso e stimolante. E s’aggiungono vene balsamiche. E tracce catramate.
89/100 e tre lieti faccini :-) :-) :-)
1991 Ha bell’integrità nel colore. Naso ritroso. Bocca calda, possente. Frutto materico e vene balsamiche. Ma il tannino è un po’ asciutto e lascia una venatura sottilmente amara nel finale. Ed è un peccato.
84/100 e un faccino :-)
1990 Note evolute, e poi frutto: complessità olfattiva. Il tannino appare magari un po’ rustico, ma la fruttuosità convince, appaga. Freschezza, dolcezza, perfino qualche accenno fascinosamente ossidativo. E bella beva.
93/100 e tre lieti faccini :-) :-) :-)
1988 Naso ostico, chiuso. Bocca vagamente fermentativa. Pian piano s’apre e senti che c’era comunque frutto e tanto e fresco (e si coglie il fruttino di bosco, soprattutto). Ma la bottiglia è infelice, ahimè.
Giudizio sospeso.
1987 Ancora quei sentori iodati, che - ormai è certo - son segno di terroir. E catrame e frutto surmaturo. Bocca austera, piacevolmente vellutata, evoluta. Calda d’alcol. Composta di frutta rossa. Ricordi di pino. Lunghezza.
86/100 e due lieti faccini e quasi tre :-) :-)