lunedì 19 novembre 2007

Quei sapori che tornano dal passato

Angelo Peretti
Lo si è letto in questi giorni: a Palermo sono stati condannati per estorsione aggravata i tre imputati che erano accusati di aver chiesto il pizzo alla storica focacceria San Francesco, in pieno centro della città. Li aveva denunciati il titolare.
Alla focacceria ci sono stato di recente. Di fronte ci stazionava una macchina dei carabinieri. Era strapieno di gente. Soprattutto giovani. Ci ho mangiato il pani ca’ meusa, il panino con la milza. Per di più maritato, e cioè arricchito col formaggio - credo sia caciocavallo: dicono così su Osterie d’Italia - tagliato a listarelle, che si fonde col calore delle frattaglie. Com’era? Straordinariamente gustoso. Un sapore antico. Unico. Se torno da quelle parti, è certo che me ne sbafo un altro.
A Firenze non ho resistito al fascino della bancarella di Orazio Nencioni, accanto alla Loggia del Porcellino stracolma di chioschetti di vestiario e pellame. Avevo appena pranzato. Ma quando mi sono imbattuto nel furgoncino che serviva i panini con il lampredotto, be’, come facevo a passar oltre? E cosa sia il lampredotto è presto detto: trippa. «Un caso di resistenza gastronomica» dice Osterie, a proposito dei trippai fiorentini. La lessano e la tengono in caldo, per affettarla davanti a te. Poi splàf, nel panino riscaldato sulla piastra. Pesantuccia, ma irrinunciabile.
Li chiamano, adesso, street food, questi panini schiettamente popolari. Cibo di strada. Appartengono alla tradizione. Da salvare. Da assaporare. Alla faccia delle continue restrizioni igienico-sanitarie. A volte francamente incomprensibili.
Direte: ma come, tu, veronese, ami il panino quando il sindaco di Verona, appunto, ne vieta il consumo nelle piazze? Intanto, Tosi ha proibito d’accamparsi sui monumenti, e comunque decideranno gli elettori scaligeri se è cosa buona o no. Però mi verrebbe da dire che ha fatto bene, considerati i panini che si vendono in centro: con tutte le materie prime di pregio che si fanno in provincia, che senso ha che i turisti s’ingozzino di plasticume?
E comunque, non è di panini che voglio riflettere in queste righe. Piuttosto di tradizione. Di cibo della tradizione. E dico evviva, perfino, alle sagre, se vi si fa da mangiare coi sacri crismi. Senza asservirsi al precotto, al preconfezionato, alle buste industriali. A Pizzighettone, nel Cremonese, sono capitato casualmente, qualche giorno fa, alla festa del fasulìn de l’öc cun le cùdeghe, e il titolo un po’ m’inquietava. Ma che saporita quella zuppa (servita in scodelle di coccio) di fagiolini dell’occhio, ormai quasi introvabili, e cotiche di maiale (tante) cotte lunghissimamente. Si può far qualità perfino nelle piazze, se si rispetta per davvero la tradizione. Se la si ha a cuore. Mica asservendola, snaturandola, plagiandola per farci soldi facili e magari esentasse.
Ecco: la tradizione gastronomica. È questa che va d’attualità. E non solo per faccende di strada o di piazza. Non solo, ovvio, quando ci son di mezzo le frattaglie (che mangio volentieri, lo si è capito). Vedo, più in generale. un ritorno - finalmente - alla cucina tradizionale. Italica. È questa la ristorazione che funziona, oggi. Il resto vive da tempo aria di crisi. Purché non sia solo moda, passeggera.
In realtà, credo che il mondo della ristorazione (quella qualitativamente valida, intendo, ché c’è troppa gente che ammanisce schifezze) lo si possa dividere in due. Le trattorie (le osterie) e i ristoranti tout court.
Le prime, le trattorie, per me sono quelle che debbon fare, appunto, tradizione. Con prodotti di territorio, con tipicità del luogo, con sapienza antica. Ma attenzione: il prodotto dev’esser buono, ché altrimenti si è alla farsa, e nel nome del tradizionale si portano in tavola nefandezze. Prima il valore della materia prima, in ogni caso. E, insieme, il rispetto della storia alimentare. Magari alleggerendola, certo: mica c’è bisogno, adesso, di dar troppa sostanza, di far sentire lo stomaco pieno. E dunque meno condimento, meno unto, e magari, se possibile, cotture più moderate e brevi, che non portino a sfibrare la pietanza. Ma è questa, ripeto, la mission della trattoria: preservare la tradizione. E può esser anche cucina borghese ottocentesca: vitello tonnato, ad esempio. Ma niente tagliata con la rucola, please.
Alla ristorazione spetta un altro ruolo. Che è quello d’applicare ingegno alle materie prime di qualità, che siano del luogo (lo preferisco) oppure no. E ci dev’essere servizio adeguatissimo. Ché questa non è più solo esperienza di gola, ma dev’essere invece festa dei sensi a tutto tondo. È il posto dove non si va a mangiare, ma a far serata. E dunque giusto piatto, giusto bicchiere, giusta tovaglia, giusta location, giusta ambientazione, giusti tempi, giuste temperature. Insomma: attenzione anche al dettaglio, alla sfumatura. E questo costa fatica e impegno, certo. E si traduce magari in prezzi non bassi. Ma giustificati, o almeno giustificabili. E poco importa se in cucina la spinta creativa la si applichi alla reinterpretazione delle tradizioni o alla creatività a tutto tondo. Qui paghi la genialità complessiva. Qui vince la testa, il pensiero.
In comune, la mia trattoria del cuore e il mio ristorante della testa, hanno un elemento: la ricerca del prodotto. Hanno il cuoco, o il patron, che la mattina presto va al mercato a cercar di che far cucina. Che non s’accontenta di far l’ordine al telefono e aspettare il furgone. Ed hanno anzi in comune anche un altro, parimenti importante, fattore: il senso dell’ospitalità, dell’accoglienza, del rispetto del cliente, ché altrimenti chi te lo fa fare di tribolar tanto al mercato, in sala, fra le pignatte?
In mezzo c’è di tutto. I posti dove ti nutri in qualche maniera. Con materie prime tutte uguali, prese da quei soliti tre o quattro fornitori che ti portano in casa di tutto e di più. E qui ti sbattono sul tavola la roba da mangiare e ti considerano appena un numero: «Caffè al 16!» senti gridare, e tu non sei più una persona, ma sei ridotto, appunto, a numero, quello che c’è scritto sul tavolo, su quei meschini, untuosi segnaposto. E poi magari, al momento del conto, paghi ugualmente i tuoi trenta, quaranta euro, che non son piccolo prezzo.

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