sabato 24 settembre 2005

Ma guarda, c’è un Bardolino che sa di tradizione

Angelo Peretti
Per me, la tecnica produttiva conta quel che conta. Senza offesa per agronomi ed enotecnici, m’interessa soprattutto che il vino esprima un terroir, il suo, e una personalità, quella del produttore. E che sia bevibile, of course. Il resto, il lavoro di vigna e di cantina, è sì importante, ma alla fin fine è un corollario, un insieme di pratiche che dovrebbero essere orientate a descrivere il legame fra persona e terroir. Tutto qui. Detto questo, eccomi a parlare di un Bardolino da agricoltura biologica. Con la premessa che ho fatto, che sia bio non m’importa più di tanto. Se la bottiglia non esprimesse qualcosa d’interessante, quel che c’è scritto in etichetta varrebbe zero. Ma qui c’è qualcosa che m’intriga. Soggetto: il Bardolino dei Poderi Oppi Pellegrini prodotto da Maddalena Pellegrini a Castion Veronese.

Lei, lady Maddalena, fa agricoltura biologica. Mica solo vino. Anche olio extravergine d’oliva e vacche della razza limousine. In un gran bel posto. Ha sessanta ettari di bosco, venticinque di pascolo e cinque e mezzo di vigne sparse qui e là. Ai piedi del Monte Baldo, alle spalle del lago di Garda. Nei dintorni della villa di famiglia, una delle più belle del territorio gardesano. Un tempo, nelle pertinenze del palazzo ci abitavano i mezzadri. Ora il magnifico edificio non è più luogo d’attività agricola: ci si fanno convegni e banchetti di nozze. Maddalena ha un cascinale poco lontano. Ci lavora col marito e un operaio moldavo. Struttura al minimo.

Fa, si diceva, un Bardolino. Ne ho bevuto, con qualche preconcetta riluttanza, l’annata 2004. Perché la versione 2003 non la ricordavo affatto bene: l’annata caldissima aveva surmaturato l’uva cuocendola, la quasi totale mancanza di solfiti – tipica della pratica bio – aveva contribuito a un’ossidazione precoce. Be’, il 2004 invece è piaciuto. Tanto che in tavola la bottiglia è finita in fretta, segno inequivocabile di piacevolezza.

Piaciuto perché è un Bardolino d’altri tempi. Di quelli che pensavo non esistessero neanche più. Mica un capolavoro. Anzi, quasi un vinello esilino, ma di straordinaria beva e singolare adesione ai canoni della più schietta tradizione. Intrigante nella sua candida, quasi ingenua semplicità. Bello come il sorriso di un bimbo.

L’uvaggio è quello tradizionale, con la corvina veronese e la rondinella a guidare le danze, ma anche buone percentuali di molinara e un poco di negrara. Le vigne sono un po’ a Castion e un po’ a Bardolino. A Castion c’è un vigneto nuovo nuovo e un altro con ceppi vecchissimi. In terra bardolinese la vigna, minuscola e giovane, è a Cortellina, che considero da sempre uno dei crû storici della denominazione, dalle potenzialità ancora del tutto inespresse.

I profumi sono quelli tipici del Bardolino tradizionale. Ci sono i piccoli frutto di bosco: la mora e il lampone. C’è la marasca sul caratteristico fondo speziato della corvina. In bocca, è sapido, con quelle particolari note “saline” che hanno sempre caratterizzato il Bardolino della tradizione. S’avvertono chiari i diversi apporti dei terroir d’origine. Le uve provenienti dal piccolo appezzamento di Cortelline imprimono classiche presenze fruttate di ciliegia e lampone, accompagnate da accenni floreali di ciclamino. Note che sono tutte di bella lunghezza. Le uve dei vigneti di Castion Veronese apportano invece le doti di vegetalità e la sottile speziatura (pepe) che hanno storicamente identificato l’entroterra fra il lago e il Baldo. La beva è favorita dall’esilità di corpo (11,5° di alcol appena: mica i muscoli iperconcentrati che sembrano una costante irrinunciabile del mondo enoico), sorretta da una nervosa e giovanile freschezza.

Insomma: è il tipico vino “da tutto pasto”. Da bevuta spensierata. Quello che accompagna la tavola senza alzare la voce. Da tòcco di pan biscotto con la soppressa casalìna. Da mensa quotidiana, mica da degustazione. Lo vedo col veronese bollito misto co la pearà. Ma anche e soprattutto con la cucina gardesana di pesce di lago. Me lo sono segnato: provarlo col risotto con la tinca. Alla prima occasione.

giovedì 22 settembre 2005

La Froscà in verticale: che carattere quel Soave

Angelo Peretti
Ah, quel bianco del ’90! Ormai i miei dodici lettori (quasi metà dei venticinque che diceva d’avere Manzoni: siamo a buon punto) lo sanno che mi piacciono i bianchi che sfidano il tempo ed anzi vengono esaltati dai lunghi affinamenti. Be’, ne ho incontrato qualcuno a Monteforte d’Alpone, terra veronese, colline soavesi. M’hanno invitato a stare al tavolo con Sandro Gini per una verticale – cosa rara – del suo Soave Classico La Froscà, uno dei vini più importanti, giustamente, dell’area. Di scena sei annate: 2004, ultima uscita, densa di promesse, e poi 2002, 1999, ‘97, ‘90 e ‘88. Mica male. Anzi: imperdibile. Con più d’un gioiello in bottiglia. Primo fra tutti, a mio parere. quel sorprendente vino del ’90, stagione fantastica. Ma ne parlo più avanti. Intanto, dico dov’eravamo e ospiti di chi. Organizzava la condotta Slow Food di Soave e si era dentro al palazzo vescovile, reso disponibile dall’amministrazione comunale: bella struttura, che si spera di vedere in futuro ancor meglio valorizzata.
Ora, la Froscà, intesa come collina, vigna. Esposta a sud est, ha sole sin dalla prima mattina e resta meno assolata nelle torride ore estive del pomeriggio. Così le maturazioni sono regolari. In più, è protetta dalle correnti fredde. In alto, tufo basaltico scuro, più sotto, tufi di diverse coloritura e in mezzo una fascia calcarea. Le vigne – in gran prevalenza garganega di vari cloni, con qualche ceppo di trebbiano di Soave – sono vecchie di cinquanta, a volte settant’anni e più. Ecco le matrici della complessità.
La prima annata in cui le garganeghe della Froscà vennero vinificate da sole fu l’85. Nasceva il crû, uno dei primi della zona. A quel tempo, il Soave era ancora vino sputtanato da anni di cisterna. Il bianco dei Gini piaceva, ma i ristoratori chiedevano di togliere la denominazione dall’etichetta. Loro, duri, a resistere: han fatto bene, e oggi anche grazie a queste resistenze il Soave è tornato a essere bianco apprezzato. Com’è nelle sue corde e nella sua storia.
Le sei annate. Dicendo che il vino fa acciaio e, da qualche anno, minima parte di legno, per maturarlo prima. Le vendemmie le ha selezionate Sandro Gini dopo personali assaggi. Con l’incognita, ovvia, della tenuta dei tappi, gran cruccio per chi ami vini invecchiati.

Soave Classico La Froscà 2004
L’ultimo nato. In bottiglia da due mesi appena. Legno ancora un po’ sopra le righe, carattere tuttora non perfettamente composto, ma dentro c’è tutto il valore di un’annata da incorniciare: quella del 2004 a Soave e Monteforte sarà una vendemmia da ricordare, fantastica. Spiccati profumi varietali, garganega a tutto tondo. Solide note fruttate si fondono con vivide memorie di fiori macerati. Cenni di mandorla. Bocca rotonda. C’è corpo, c’è freschezza. Quanto serve a promettere grand’evoluzione. Bel vino, che potrà dare soddisfazioni per anni. Per me, già ora 89-90/100.

Soave Classico La Froscà 2002
Quella del 2002 fu ovunque annata critica: piogge continue, dove non era giunta la grandine a portar via tutto. La scontrosità della vendemmia è tradotta nel vino, che è sì complesso – e molto - sotto il profilo aromatico, ma un po’ velato d’uve dalla maturazione problematica estratte a fondo. Comunque di gran personalità, atipico nella sequenza delle sei bottiglie. Naso varietale, frutto e fiori bianchi, erbe officinali, mentuccia, erbaspagna. La bocca conferma la complessità. C’è frutto surmaturo e una speziatura avvolgente di noce moscata e pepe di Sichuan. Ha lunghezza, ma pecca un po’ - confermo - in pulizia. Chissà come potrà evolvere. Ora, a mio avviso, 86/100, che non è poco davvero.

Soave Classico La Froscà 1999
Fu annata fresca, ma buona. Buonissimo è il vino. Naso decisamente improntato alla mineralità, e perdoni Masnaghetti. Che c’entra? C’entra, ché nell’ultimo numero della sua felicemente rinata rivista Enogea (la ricevete per posta abbonandovi: scrivete a almasnag@tin.it , vale la pena) ironizza sulla nuova mania collettiva: qualche anno fa un vino doveva per forza esprimere il frutto, mentre adesso dev’essere, appunto, minerale. Scrive: «Se volete quindi fare un complimento a un produttore o a un amico che ha stappato una bottiglia per voi, tirate fuori il ‘minerale’ al momento giusto (non un sasso, cosa avete capito!) e vi sarà eternamente riconoscente». Be’, nella Froscà ’99 la mineralità c’è tutta per davvero: grafite, pietra focaia in abbondanza, ché è così che nelle annate giuste s’esprimono nel vino le terre vulcaniche dei colli di Monteforte. Sotto, c’è il frutto della garganega a piena maturazione, ben delineato. La bocca è in perfetta corrispondenza. Gran corpo, bell’equilibrio. Vino che si conferma nel tempo (fu tre bicchieri della guida Gambero Rosso – Slow Food). Vérghene (averne in cantina, intendo). A mio parere, 91/100.

Soave Classico la Froscà 1997
Ahimè, il tappo qui non aveva tenuto. Almeno sulla bottiglia del mio tavolo. Naso sporchetto di legno secco, tracce ossidativa, bocca che asciuga. In mezzo, per pochi secondi, la garganega, ben definita, ma è solo un flash. Ho assaggiato al volo un bicchiere d’un altro tavolo, ed era cosa ben diversa, col frutto grasso e ancora una bella freschezza e una beva d’appagante lunghezza. Ma un sorso e via a fine degustazione non mi fa esprimere giudizio. Semmai il rimpianto (è buona annata).

Soave Classico La Froscà 1990
Che il ’90 sia stata un po’ dovunque una gran bella annata è cosa nota, ma la Froscà stupisce, affascina, commuove. Per giovinezza. Non avessi visto la bottiglia stappata lì davanti, difficilmente avrei pensato foss’un bianco di quindici anni, e mai – l’hanno ammesso – c’avrebbero giurato gli altri presenti ai tavoli. Il naso, sì, è ovviamente subito chiuso, magari un po’ evoluto, ma sfoggia pian piano spezie finissime, fieno secco, cedro candito, vene sottili di minerale. Stessa progressione sul palato, sorretto da un’invidiabile freschezza. Poi giungono la nocciola appena colta, i fiori bianchi. Le poche bottiglie ancora in cantina potranno avere ancora lunga vita. Un fuoriclasse. 93/100.

Soave Classico La Froscà 1988
Quarta annata nella storia della Froscà (la prima, l’ho detto, fu l’85). Naso evoluto (ovvio!), con tanta nocciola e cenni di fiore essiccato. Bocca però grassa, corposa, ricca. Frutta secca, spezie in rilievo (noce moscata, soprattutto, come nel 2002). Frutto dolce, rotondo, ancora succoso. Forse non avrà ancora molta vita, ma così com’è adesso dà soddisfazione. Dice Sandro Gini che ne aveva aperto una bottiglia qualche giorno prima e s’era dimostrata meglio del ’90. Complimenti. Questa, comunque, 87/100.

Per finire. La Froscà ha dato gran prova di sé. S’è dimostrata quel che sappiamo: bellissima espressione del Soave, uno dei benchmark del territorio, uno di quei capisaldi cui si deve far riferimento quando si voglia capire il bianco soavese. E il Soave s’è dimostrato quel che da anni credo: bianco che nelle migliori espressioni può sfidare gli anni. Peccato sia così difficile trovare annate vecchie: pochi produttori conservano in Italia loro «archivi» di vino, i ristoranti neanche a parlarne (in fondo li capisco, ché molti clienti sarebbero contenti di trovare già in tavola l’annata ancora da vendemmiare, tant’è la mania del bianco giovane). Qualcosa sta cambiando, però: che si diventi adulti?

venerdì 9 settembre 2005

Vendemmia del secolo? Ma per piacere...

Angelo Peretti
Non ne posso più. Amici, conoscenti, gente incontrata in quest’e quella degustazione, mi fanno la stessa domanda: «È vero che il 2005 è un’annata eccezionale per il vino?». E cosa volete che ne sappia io, visto che da qui ad avere il primo vino mancano ancora mesi, e per quelli più importanti ci vuole una vita. Tutto perché telegiornali, quotidiani, siti on line e chi più ne ha più ne metta hanno diffuso festosi la notizia: «La vendemmia 2005 sarà di grande qualità». Come l’anno scorso e l’anno prima (e il caldo torrido che aveva cotto l’uva in vigna?) e l’anno prima ancora (e le grandinate del 2002?). Intanto, neppure un grappolo era ancora stato staccato dalla vigna. Evidentemente, c’è chi ha la sfera di cristallo. Così è la solita storia: prima che si cominci a raccogliere, c’è chi annuncia ai quattro venti come sarà il vino della nuova annata. Che per forza sarà straordinaria, la migliore del secolo. Ma per piacere!
Capisco che da più parti, nel mondo della produzione, ci sia l’interesse a cercare di tener su il prezzo delle uve, soprattutto in anni di magra come questi ultimi. Però non è creando false aspettative che si fa il bene del vignaiolo. Anzi: spesso capita il contrario. Perché se qualcuno predica che l’annata tale sarà strepitosa, poi il consumatore - e prima di lui il grande buyer - non sarà disposto ad accettare dei vini «soltanto» buoni. E se verrà (in tanti casi, inevitabilmente) disilluso, abbandonerà quel vino, quella doc. Così alla fine a rimetterci sarà Pantalone, il contadino, che l’anno dopo vedrà il prezzo delle sue uve (magari stavolta buonissime) cadere ancora più in basso.
Vedo adesso anch’io uno dei tanti comunicati del genere giunti nella mia casella email. Dice, dopo l’immancabile annuncio di eccezionalità dell’attesa vendemmia 2005, che «la qualità sarà tra le migliori degli ultimi anni e potrà sicuramente superare quella del 2001, con diffuse punte di eccellenza come nel 1997». Bene: a questi signori vorrei domandare la prossima combinazione vincente del Superenalotto. La dovrebbero sapere semplicemente guardando una ricevitoria, se dando uno sguardo ai vigneti prima della vendemmia riescono non solo a spiegarmi che il vino sarò buono, ma addirittura a far confronti con le bottiglie di altre annate. E io che pensavo che per valutare un vino occorresse assaggiarlo. Illuso: basta un’occhiata alla vigna fra agosto e settembre. E se poi piove a dirotto? E intanto piove. Se grandina? Intanto qui e là grandina. Se arriva il marciume? E qui e là, guarda caso, è arrivato.
Se, se, se: sono tante le variabili che determinano l’evoluzione di un’annata dopo aver semplicemente «pesato» la quantità d’uva sulla vigna. Ma i profeti dell’annata questo fanno: tanta uva uguale annata ottima, un po’ meno uva uguale annata straordinaria. Ripeto: ma per piacere!
Che poi, sia chiaro, mica voglio dire che sarà un'annata da buttare. Difficile, certo. Ma è presto per trarre giudizi.