venerdì 30 aprile 2004

Se l'Amarone lo fanno in Australia

Angelo Peretti
Premesso che comunque è e resta un pasticciaccio (termine grazioso, per non usarne altri meno, molto meno politically correct). Ripremesso che comunque l'ho firmata anch'io la petizione valpolicellese che invita le autorità europee a far marcia indietro (firma del resto simbolica: figurarsi cosa gliene frega ai legulei di Bruxelles). Ribadito, sottolineato, rimarcato tutto questo, chiedo: ma siamo proprio sicuri che 'sta storia delle denominazioni italiane usabili all'estero è la causa vera della crisi del vino italiano?
Mi riferisco alla decisione con cui l'Unione europea ha modificato di recente un proprio regolamento, liberando di fatto l'utilizzo di alcune "denominazioni storiche" dei nostri vini. Insomma, teoricamente, in Sud Africa o in Nuova Zelanda potranno scrivere in etichetta Amarone, Recioto, Vin Santo, Torcolato, Brunello e alcune altre dizioni in uso in Italia. Un'assurdità.
Ci sono, è vero, delle limitazioni per quest'utilizzo (per esempio il fatto che quel certo vino con quel certo nome in quella certa nazione lo si faccia da un bel po' di anni), ma Santa Burocrazia troverà modo - c'è da star sicuri - di fare il miracolo, consentendo di aggirarle.
Parlare di scandalo è dunque giusto. Ma da qui ad affermare - come ho sentito fra gli stand di Vinitaly - che questa sarebbe la fonte delle attuali difficoltà di mercato, be', ce ne vuole. Non foss'altro perché il caso è esploso solo adesso e comunque farà vedere i propri (eventuali) effetti solo fra qualche tempo.
E poi capiamoci: un conto è che su una bottiglia ci sia scritto Amarone (magari made in Chile) e un altro che l'indicazione sia Amarone della Valpolicella. Una cosa è il Recioto di Soave, un'altra il Recioto (indiano? argentino? messicano?) e basta. Perché quelle originali mica sono bottigliette da quattro soldi: uno ci pensa prima di comprare un succedaneo nato chissà dove. Nessuno, ma proprio nessuno può essere seriamente convinto di acquistare una borsa di Prada dall'extracomunitario che stende per strada le sue cianfrusaglie. Magari la borsa non è neppure fatta così male, ma la qualità è tangibilmente differente.
Ecco: per il vino è la stessa cosa. Magari l'ipotetico Amarone sudamericano potrà anche non esser vino disprezzabile, ma mai e poi mai potrà sostituirsi al vero Amarone della Valpolicella. A meno che...
A meno che non ci si voglia far male con le proprie mani, producendo a tutto spiano anche nelle annate meno propizie, mettendo sul mercato sempre più bottiglie, pensando più alla quantità che alla qualità, concentrandosi più sul conto in banca che sul consumatore.
Questo sì che sarebbe fare il gioco dei taroccatori: cedere sul fronte della qualità, riducendo a poco o nulla il divario fra i vini d'antico lignaggio e quelli d'imitazione. Se si disperde la memoria dei luoghi d'origine, se si smarrisce il filo della storia d'un vitigno costruita su un preciso territorio da generazioni di vignaioli, se si cerca sempre e solo di seguire le mode e il mercato, allora la differenza percepita dal consumatore scende vicino allo zero. Allora a far da spartiacque resta solo il prezzo, e a parità di qualità, vince il più basso. Che non è (ed oggettivamente non può essere) quello della bottiglia italiana.
Sui prezzi, poi, ci sarebbe da discutere a lungo. Lo farò magari un'altra volta. Intanto, solo una riflessione: sicuri che era giusta la politica dei continui aumenti di listino? sicuri che c'è davvero correlazione fra costo e valore intrinseco del prodotto?
L'impressione è che il mercato del vino almeno in parte fosse (e ancora sia) drogato: una bolla speculativa come quella che avvolse pochi anni fa i titoli della new economy. La bolla fece boom, e c'è chi ancora si lecca le ferite. Dice la saggezza contadina delle mie parti che "a usèl 'ngórdo che crèpa 'l gòso", all'uccello ingordo gli scoppia la gola.
Preoccuparsi per le insulsaggini degli azzeccagarbugli europei è giusto e doveroso, ma altrettanto salutare è ripassare i proverbi dei propri vecchi.

giovedì 15 aprile 2004

Parlando di Lugana e Groppello

Angelo Peretti
Ma i vini del Garda potranno mai essere davvero "grandi"?
Gli organizzatori d'un recente convegno svoltosi a Moniga del Garda, sulla sponda bresciana del benacense laco, presso l'enoteca Garda&Vino per il venticinquennale di Civielle (l'acronimo sta per Cantine della Valtenesi e della Lugana) sembrano non avere dubbi, dato che come titolo hanno scelto questo: "I grandi vini del Garda". E visto il contesto, per Garda s'intende quello di riva lombarda. Epperò, un po' meno trionfalisticamente, io preferisco metterci il punto di domanda, come in effetti ho fatto in apertura.

Detto questo, chiarisco che purtroppo all'incontro non ci sono potuto andare. Ma ugualmente vorrei dire la mia nel dibattito che s'è aperto, dopo aver letto il "verbale" del meeting e l'ampio articolo che Riccardo Modesti - che non ho la fortuna di conoscere - ci ha dedicato su WineReport (http://www.winereport.com/).
Soprattutto su due passaggi vorrei soffermarmi, e non me ne abbiamo a male gli altri relatori (tra cui Mauro Remondino del Corriere della Sera, l'amico Costantino Gabardi, onnipresente affabulatore in materia enoica e gli appassionati presidenti dei consorzi del Lugana e del Garda Classico, Paolo Fabiani e Paolo Turina).
Primo flash: quello di Sante Bonomo, presidente di Civielle. Ha ipotizzato che la frammentazione di tipologie di vino e di numero d'aziende dell'area gardesana possa costituire un elemento di debolezza, soprattutto in termini di marketing.
Secondo: Mattia Vezzola, grande wine maker sul Garda (Costaripa) e in Franciacorta (Bellavista). Ha centrato - mi pare - il nodo del problema, ricordando concetti che possono sembrare elementari, ma che così evidentemente non sono se c'è bisogno di ribadirli in un pubblico consesso. E cioè che sul Garda ci sono due aree potenzialmente importanti, completamente diverse per terreno, vitigni e microclima: la Valtenesi e la Lugana. Nella prima è signore il Groppello (inteso come vitigno), nell'altra il Lugana (leggi Trebbiano). Il problema è ritrovare l'identità di queste due aree: così sarà possibile comunicarla. E dunque occorre tornare a studiare il territorio.
Ora tocca a me.
La frammentazione produttiva gardesana è davvero un problema. Non tanto per la dimensione delle aziende, che anzi può e deve costituire un plusvalore (un esempio? provate ad assaggiare che Lugana comincia a venir fuori dai due ettari scarsi di Cascina Maddalena). Il dramma è che qui non ci si capisce più, tante sono le doc in circolazione. Il Lugana c'è in quattro tipologie (il base, il Superiore, lo spumante Charmat e quello metodo classico). Il Garda Classico ha il Groppello, il Chiaretto, il Rosso e il Bianco. La doc Garda ha decine di sottodenominazioni. Qui e là resiste qualche sostenitore della vecchia doc Riviera del Garda Bresciano. C'è anche il san Martino della Battaglia, dimenticato da Dio e dagli uomini, col bianco e il liquoroso. Insomma: una Babele, un indefinibile marasma che non aiuta certo a mettere in luce l'effettiva esistenza d'una piena sintonia uomo-vitigno-territorio: s'è spinto verso doc ipertrofiche, nel tentativo di non scontentare nessuno e finendo per scontentare tutti.
E dunque che fare per ridare visibilità alla zona, che pure - e lo vado predicando da anni - di potenzialità ne ha davvero?
Secondo me, bisogna avere il coraggio di scegliere. Di investire su un numero inferiore di vini. Di valorizzare i due vitigni davvero importanti: Trebbiano di Lugana e Groppello della Valtenesi, appunto.
Col primo, ci si deve fare "il" Lugana. Uno solo, mica quattro. Magari docg. A costo di eliminare le bollicine, che tanto, in termini di profilo qualitativo, difficilmente potranno andare oltre decorose espressioni da aperitivo. Perché il Lugana deve finalmente mostrarsi per quello che davvero può essere: un grande bianco, capace d'esprimersi bene da giovane, ma in grado anche di tirar fuori muscoli, polpa e velluto col trascorrere degli anni. E per far questo, niente legni invadenti (la botte, grande o piccola che sia, la si usi per quello che è: un contenitore, mica un insaporitore artificioso), basta stucchevoli residui di zuccheri, più attenzione all'equilibrio complessivo.
Col Groppello ci si deve fare il Rosso della Valtenesi. Che l'attuale Garda Classico Rosso debba per forza esser fatto con il quartetto di Groppello, Marzemino, Barbera e Sangiovese ha poco senso. Soprattutto perché non è credibile che tutt'e quattro le uve diano sempre e comunque il meglio di sé in qualunque angolo di Riviera e in qualsiasi stagione. Groppello almeno all'80% e poi qualunque altro vitigno a bacca rossa venga coltivato in zona: questa è la formula che mi sento di suggerire. Non s'abbia timore a sperimentare sul Groppello. Non s'abbia titubanza di fronte all'appassimento - che vorrei però breve, leggero. Non si scarti il rigoverno con le uve fresche. Sono pratiche usate da decenni. Ho avuto la fortuna di stappare pochi mesi orsono un Groppello da uve appassite che aveva passato da lungi i trent'anni in bottiglia: sontuosamente bevibile (era purtroppo la penultima bottiglia conservata da Battista Comincioli). E per l'eventuale parte restante delle uve, ci si metta quel che matura bene sulla riviera. Marzemino, Barbera, se si vuole. Ma se il qualcos'altro è - come in effetti davvero già ora è - il Rebo, Rebo sia, senza paure, complessi, tentennamenti. In riviera occidentale questa vigna trentina inventata da Rebo Rigotti all'Istituto di San Michele all'Adige sembra dare il meglio di sé: esaltiamola, allora. Chi avesse i dubbi, cerchi qualche bottiglia di Brunetto di Montecorno (oggi ce l'ha Avanzi), fatta sul cocuzzolo d'una collina affacciata su Desenzano: dopo dieci anni è rusticamente, quasi aggressivamente polposo.
Terzo vino sia il Chiaretto. Questo sì da un uvaggio o da una cuvée. Perché la leggerezza e l'eleganza ne siano padroni. Lo chiamano il vino di una notte, perché quest'è il tempo massimo in cui il mosto resta a contatto con le bucce. Ma è anche il vino di una stagione, perché ad agosto non ne trovate più neanche un litro. Lo si produca sfacciatamente esaltandone fruttuosità, florealità, asprigna vegetalità. Ricordando che un vino è "grande" davvero solo quando nella bottiglia stappata non ne resta neanche un goccio. Se è buono, lo si beve tutto, sorso dopo sorso.

lunedì 12 aprile 2004

Lunga vita all'Agnella

Angelo Peretti
Una cena di quelle che non avevo ricordi. L'ho fatta all'Agnella, trattoria di Valgatara, in parte alla strada che sale verso Marano, terra di Valpolicella. Andateci in tanti: posti così sono da tutelare meglio che il panda. Ultimi reperti delle osterie d'una volta. Di quando a mangiar fuori ci si andava per il battesimo e la cresima.
Mi ci ha portato Paolo Galvani, amico tipografo, a inizio aprile. Serata di poca gente, di partita (l'Inter che va a perdere in Francia). Sera da tuffo nel passato.
Sia detto forte e chiaro: il posto è brutto, il servizio fin troppo spartano. Il vino è meglio se te lo porti da casa (almeno quello capitato in tavola a me), i contorni sono da evitare. Ma il resto è da memoria viva. Ci torno: state certi.
Si entra e davanti c'è il bancone del bar: pochi liquori d'antan. Sulla destra, lo spaccio delle sigarette: le Celestine, soprattutto. Sulla sinistra la sala: dall'odore di fumo che ristagna, si direbbe che siano da poco finite le mescite di gòti e le partite a briscola. Il pavimento lo vorresti a casa tua: piastrelle di cemento colorato, anni Trenta-Quaranta. Di là, una salettina nuova, col marmo freddo in terra e affronti all'arte appesi alle pareti. Tovaglie bianche. Qui la cicca è vietata.
Luciano Castellani, sessantenne oste-cuoco-cameriere-patron, ti chiede cosa vuoi da mangiare. L'agnello, ovviamente: ci son venuto apposta. Qui lo si fa alla brace o in teglia. Scelgo la griglia. Intanto, l'antipasto: otto fette di salame contadino tagliate larghe un dito. Commoventi, con quel poco d'aglio che dà aroma senza farti puzzare il fiato. Poi le tagliatelle. Pasta fresca, grossa, rugosa, fatta apposta per trattenere un ragù che sa di domeniche in famiglia. Divorate. Finalmente l'agnello: da applauso. Più che costine, braciole. Larghe, tenere, succulenti. Dolce: una pastafrolla industriale (però più che accettabile), servita - vabbé - nella sua confezione di plastica.
Conto: 19 euro a testa, da pizzeria. Roba da stampare un bacio sulla fronte sudata del Luciano, che a star dietro ai fornelli l'ha imparato anni fa dalla mamma invalida.
L'augurio è che resista. Che l'Agnella abbia lunga, lunghissima vita.
Le coordinate. Trattoria Agnella, Località Agnella, Frazione Valgatara, Marano di Valpolicella. Telefono 045 7701794. Chiuso il mercoledì. Aperto dalle 8 del mattino fino a quando c'è gente. Coperti: trentacinque (prenotare se si va il fine settimana). Carte di credito: che cosa sono?